di Massimo Palozzi - Archiviata un’attesissima edizione del Giugno Antoniano, culminata nella processione di domenica scorsa, l’interesse generale è tornato sui temi di più stretta attualità. Con la svestizione di sant’Antonio e i ringraziamenti della Pia Unione alla città e a tutti coloro che hanno reso possibile l’evento dopo due anni di stop forzato a causa della pandemia, da lunedì siamo rientrati nel tempo ordinario delle chiacchiere e delle elucubrazioni. A tenere banco in questi giorni è il toto-nome per il nuovo vescovo che dovrà sostituire mons. Domenico Pompili, alimentato dalla ghiotta suggestione anticipata giovedì dal Messaggero, secondo la quale papa Francesco starebbe considerando un accorpamento della diocesi di Rieti con quella confinante di Sabina – Poggio Mirteto nell’ambito di un vasto programma di revisione delle circoscrizioni diocesane italiane. Nel caso, il più accreditato a succedere a don Domenico sarebbe l’attuale titolare del distretto suburbicario sabino, mons. Ernesto Mandara. In alternativa si ipotizza la nomina di un nuovo vescovo a Rieti che fra cinque anni, quando Mandara andrà in pensione, assumerebbe la guida della nuova maxidiocesi.
Nel frattempo la comunità sembra aver metabolizzato la notizia del trasferimento a Verona di mons. Pompili. In fondo, c’est la vie. Eppure, l’affetto manifestatogli in maniera straordinariamente potente anche in queste ore ha mosso una “tempesta emotiva” (parole sue) che lo ha travolto in un abbraccio ricolmo di premura e calore. Un abbraccio ricambiato nell’amorevole discorso di commiato pronunciato poco più di una settimana fa all’interno della cattedrale di Santa Maria dove fu consacrato il 5 settembre 2015, con la voce venata da una commozione autentica e profonda. Sette anni di cammino pastorale del resto non si dimenticano facilmente. Tanto più se alla prima esperienza e avendo vissuto drammi epocali come il terremoto e la pandemia.
Da raffinato intellettuale e abile comunicatore, ma anche da intraprendente promotore di attività concrete, don Domenico ha saputo subito entrare in sintonia con i reatini. Che per definizione non si caratterizzano per gli slanci immediati e che invece con il giovane episcopo ciociaro hanno costruito un rapporto intenso di rispetto, stima e gratitudine.
Per questa terra Pompili è stato in effetti pastore e mediatore sociale. Guida spirituale e agitatore delle coscienze. Rifugio paterno e pungolo politico. Il suo è stato un lavoro di costante ascolto dei bisogni del territorio, di stimolo per il suo sviluppo e di denuncia quando le cose non andavano. In altre parole, ha incarnato quel sentimento popolare da “uno di noi”, senza però mai svilire l’elevata missione affidatagli con la cattedra che per primo fu di san Prosdocimo.
Che potesse finire così era nella natura delle cose. Già al tempo del suo insediamento era chiaro che prima o poi don Domenico avrebbe spiccato il volo verso altri lidi per assumere incarichi più importanti. Non si tratta di carrierismo, male della Chiesa sovente stigmatizzato dallo stesso pontefice. Si tratta semplicemente della normale evoluzione nel cammino di un uomo che tra la classe dirigente ecclesiastica non vanta unicamente l’amicizia personale con Francesco (grazie alla sua intercessione il papa è venuto più volte in provincia, da Greccio ad Amatrice ad altri luoghi). A lui si riconoscono infatti tratti caratteriali di grande empatia, oltre a una solida cultura non soltanto teologica, cui si aggiunge una fitta rete di relazioni che, unita all’ancor giovane età, ne fanno una risorsa di primo piano. Dunque, la “fatal Verona” stavolta non ha spezzato solo i cuori dei tifosi milanisti per uno scudetto perso sul fillo di lana come accadde nel 1973. Il capoluogo scaligero ha inferto un duro colpo ai reatini, fedeli e non, che con Pompili avevano stabilito una profonda corrispondenza di sentimenti, lasciando purtroppo incompiute iniziative di enorme spessore. Su tutte, i preparativi per la celebrazione dell’ottavo centenario del presepio.
Il neovescovo di Verona si insedierà ufficialmente a settembre, subentrando a mons. Giuseppe Zenti, dimissionario da marzo per raggiunti limiti di età. Arriva nella patria di Giulietta e Romeo in un momento particolare e si troverà fin da subito a gestire gli strascichi dell’intervento del suo predecessore alla vigilia del ballottaggio, da tutti letto a favore del sindaco uscente Federico Sboarina, sostenuto da Fratelli d’Italia e Lega (che peraltro ha perso le elezioni a favore del candidato progressista Damiano Tommasi).
Da buon diplomatico qual è, non gli mancheranno gli argomenti per chiudere in fretta le polemiche. Come ha ricordato il Corriere del Veneto a sottolinearne il valore, il fatto che sia un religioso non proveniente dal Triveneto è molto irrituale per la diocesi veronese. Addirittura, in epoca preunitaria i prescelti di solito erano presi all’interno della ristretta cerchia di fiducia del patriarca di Venezia. Non a caso, la porta orientale di Verona si chiama porta Vescovo, perché da lì faceva il suo ingresso il nuovo presule proveniente proprio dalla laguna.
Senza nulla togliere a Rieti, la sede scaligera è di un altro livello. Per Pompili si tratta insomma di una promozione, in potenza trampolino per un’ulteriore crescita verso l’approdo alla porpora cardinalizia. È normale quindi che ci lasci, pur con tutta la sofferenza (reciproca) per la separazione e pagando lo scotto di allontanarsi dagli anziani genitori. Dispiace, certo, ma l’obbedienza è uno dei voti pronunciati da ogni prete e a lenire il disagio soccorrono le parole al solito puntuali di Fabrizio De André nell’autobiografica Giugno ´73: “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”.
Tutto sommato, distacchi così, se sono strazianti per gli affetti lacerati, sono sempre meglio di quelli capitati a qualche predecessore nel passato. C’è stato infatti un tempo in cui i vescovi reatini finivano ammazzati. Una sorte che toccò ad esempio a Ludovico Alfani.
Fine del XIV secolo. La signoria degli Alfani, stabilita con il capostipite Cecco, gonfaloniere dal 1376 al 1378 e sempre decisivo nelle vicende politiche della Rieti di allora, è ancora piuttosto solida, tanto da ottenere la nomina a vescovo di suo figlio Ludovico nel 1380.
Il 9 febbraio 1397 scoppia però un’insurrezione guidata da un gruppo di nobili di parte sia guelfa che ghibellina. Il vescovo Ludovico viene assassinato mentre officia la messa nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Cittaducale. Da lì i congiurati raggiungono Rieti dove pugnalano a morte il fratello del prelato Giannandrea e tentano di eliminare l’altro fratello, Rinaldo, che nel frattempo aveva ereditato dal padre il ruolo politico. Come scrive Tersilio Leggio in un bel saggio uscito l’anno scorso su Reti Medievali, “la reazione fu rapida e feroce, l’Alfani si vendicò facendo impiccare gran parte dei cospiratori. Da quel momento la vita cittadina mostrò profonde incrinature e il dominio di Rinaldo divenne dispotico”. Ciononostante, “Rinaldo riuscì a conservare il potere, anche grazie alla sanzione che ne fece papa Martino V, che nel 1419 lo nominò suo vicario per la città di Rieti. Tuttavia, nel 1425 il papa privò Rinaldo della carica” e in breve venne bandito. La sua espulsione riportò la pace in città e neppure il successivo tentativo di riprenderne il controllo ebbe buon esito. Finiva così il secolo degli Alfani, nel cui palazzo alla sommità di via Pennina si tenevano le più importanti riunione politiche. Al punto che, una volta spodestati, venne requisito diventando simbolicamente la sede delle principali magistrature cittadine che prima erano stanziate negli edifici affacciati sulla duecentesca piazza del Leone, l’odierna piazza Oberdan. Negli anni Quaranta del Novecento le “case Alfani”, vennero infine abbattute per far posto alla nuova ala posteriore del palazzo comunale e oggi del casato sopravvive solo un lontano ricordo con l’intitolazione al loro nome del largo con il parcheggio sul retro del Municipio.
Stemperata con questo ricordo la mestizia dell’addio, rimarrà in tutti il conforto di un’esperienza pastorale forte, maturata in sette anni intensi, spesso difficili e a tratti duri. L’amicizia dei reatini e per molti la devozione filiale accompagnerà mons. Pompili per il resto della sua vita, ma siamo sicuri di interpretarne il pensiero rivolgendo lo sguardo al successore che presto prenderà possesso del palazzo papale di via Cintia dovendosi misurare con un’eredità di affetti, prima ancora che di opere, assai difficile da gestire. Chiunque sarà, non merita un’accoglienza velata dal rimpianto.
10–07-2022