di Massimo Palozzi - Una delle tracce più interessanti della prima prova scritta degli esami di maturità svoltasi mercoledì, riguardava l’emergenza generata dai cambiamenti climatici. In particolare, gli studenti sono stati chiamati a riflettere sulle parole del premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi dette alla Camera dei deputati lo scorso 8 ottobre in occasione della riunione dei parlamenti nazionali organizzata in vista della COP26, la Conferenza delle Nazioni Unite che si sarebbe tenuta a Glasgow agli inizi di novembre.
Parisi era stato appena insignito del più prestigioso riconoscimento al mondo per uno scienziato e sebbene il campo dei suoi studi non sia esattamente quello dei cambiamenti climatici e delle loro conseguenze, il discorso pronunciato a Montecitorio conteneva spunti davvero interessanti. “Era un testo che avevo buttato giù di fretta, ma ne ero soddisfatto”, ha commentato il professore in un’intervista a Repubblica proprio mercoledì, spiegando che “il cambiamento climatico è una sfida impegnativa. Impone grandi sacrifici ai cittadini ed è sempre molto complicato convincere le persone che devono pagare un prezzo oggi per ottenere un vantaggio in futuro. Questi sacrifici vanno poi distribuiti equamente sia fra le nazioni che fra gli individui di una stessa nazione”. Concetti semplici da afferrare ma enormemente difficili da mettere in pratica. Come dimostra la straordinaria coincidenza della traccia della maturità con l’emergenza siccità che ha costretto dapprima i Comuni, da Rieti a Fara Sabina a Montopoli, ad emanare ordinanze antispreco, quindi il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, a proclamare lo stato di calamità naturale.
In realtà niente di nuovo sotto il sole. La lunga assenza di piogge sull’Italia nei mesi scorsi ha fatto sì segnare record negativi come il livello del Po mai così basso da settant’anni a questa parte, ma per quanto ci riguarda i dati dicono che la situazione non è la peggiore in assoluto e soprattutto che la siccità non è poi un evento tanto straordinario. Per Erasmo D’Angelis, segretario generale dell’Autorità di bacino dell’Italia Centrale ed ex sottosegretario nel governo Letta con delega alle dighe e alle infrastrutture idriche, intervistato sempre da Repubblica, “in questo momento stiamo vivendo l’annata forse meno calda dei prossimi anni, perché ormai da tempo la modellistica climatica mostra un aumento tra i 2 e i 4 gradi centigradi delle temperature in Italia. Dagli anni Ottanta è mutata la distribuzione delle piogge, per cui i periodi di siccità sono progressivamente aumentati da 40 a circa 150 giorni all’anno, in particolare con una diminuzione della pioggia estiva che potrebbe ridursi ancora del 30%. Il punto di svolta di quest’anno è che non la sperimenta soltanto il Sud, dove ormai aveva creato una situazione endemica, ora le aree più colpite sono Nord, Nord Est e Centro”. Appunto. Dello stato di sofferenza ce ne stiamo accorgendo adesso perché solo ora la combinazione tra caldo soffocante e assenza di precipitazioni ha creato la tempesta perfetta. Ma anche a guardare le tracce sottoposte ai maturandi nel passato, si scopre che già nel 1988 uno dei temi proposti era il seguente: “È sempre più di attualità il problema della difesa dell’ambiente. Il candidato illustri i fatti e i punti di vista”. All’epoca non si parlava ancora (o almeno non nei termini attuali) di cambiamenti climatici o di emissioni climalteranti, ma il nocciolo della questione rimane lo stesso. Il nodo era dunque già ben presente oltre un trentennio fa, solo che nessuno si è mai preso seriamente la briga di prendere misure per arginare il fenomeno. Anzi, lo stile di vita “comodo” ha via via prevalso su ogni preoccupazione, con i risultati sotto gli occhi di tutti in questi giorni.
E dire che, secondo gli esperti, il clima non ci sarebbe nemmeno (ancora) così avverso. I punti deboli sono piuttosto la manutenzione del territorio e la corretta gestione delle risorse idriche. Sempre D’Angelis: “Siamo il Paese europeo più ricco di acqua ma più povero di infrastrutture. Da noi la media di piogge è di 302 miliardi di metri cubi l’anno, con variazioni a seconda di annate più siccitose, ma si tratta di una media superiore a quella dell’Inghilterra, per cui a Roma piove più che a Londra. Certo bisogna poi considerare come piove, perché un temporale che scarica diversi metri cubi d’acqua in pochi minuti ha diverso impatto da una pioggerella sottile e continua”. In mezzo c’è l’idrografia. In Italia le piogge alimentano ben 1494 corsi d’acqua che però “hanno carattere torrentizio, mentre i fiumi del Nord Europa scorrono per chilometri con portate più ampie. Così quando non piove i nostri corsi d’acqua sono ridotti a rigagnoli e tanti torrenti non si vedono più, mentre bastano tre giorni di pioggia e il Tevere si ingrossa”. E qui viene il bello. Alla domanda su come convogliamo in riserve quest’acqua, la risposta appare confortante (almeno all’apparenza) per quel che riguarda il Reatino: “abbiamo 1053 falde montane di acqua dolce per cui, per esempio chi come Roma beve le grandi sorgenti del Monte Nuria (nel Cicolano, ndr) è messo meglio, ma chi utilizza gli acquedotti fluviali è nei guai”. Da cui la chiosa piuttosto raggelante: “abbiamo potenziali risorse d’acqua ma non le infrastrutture per convogliarle”.
Contestualizzata in un territorio come il nostro, ricchissimo di acque e fonti sorgive, la considerazione assume tuttavia connotati ai limiti del paradosso. A questo va aggiunto che le infrastrutture italiane “sono in gran parte realizzate dall’800, le ultime dighe risalgono agli anni Sessanta, quando è stato fatto l’ultimo Sistema acque nazionale. Non viene fatta manutenzione, così le dighe si interrano e mentre nel 1971 si immagazzinava il 14% di tutta l’acqua di pioggia, oggi la percentuale è dell’11,3%. Non è più stato fatto nulla, l’acqua è uscita dal bilancio dello Stato, come dalle Regioni, perché dopo la legge Galli del 1994 la gestione di 600mila km di rete idrica per acqua potabile nelle nostre case è stata affidata a tariffa”. E poiché abbiamo le tariffe idriche più basse d’Europa (musica per Aps), “si risparmia sull’ammodernamento e sulla manutenzione, così abbiamo anche la maggiore percentuale di perdita, il 42% certificato dall’autorità. È un problema di cui non si è fatto carico nessuno”.
Fortuna che c’è il Pnrr. E invece no. I finanziamenti previsti sono davvero minimi. “All’acqua” - nota ancora D’Angelis – è stato dato tra l’1 e il 2% dei fondi. Va bene aumentare e riparare le reti stradali e digitali, ma la rete dell’acqua è fondamentale”. E come se non bastasse, incombono obblighi e sanzioni da parte dell’Ue “perché dal 26 giugno 2023 scatteranno le nuove regole per il riutilizzo delle acque reflue rispetto alle quali siamo totalmente inadempienti. Siamo un Paese nel quale il 20% dei prelievi di acque è destinato all’uso domestico, il 25% al settore industriale e il resto all’agricoltura. Siamo gli unici a lavare le strade, annaffiare i giardini e pulire i macchinari con l’acqua potabile. Per di più in agricoltura gli sprechi sono enormi perché non c’è innovazione. Serve un cambio di mentalità radicale, un salto di qualità strategico, oppure le conseguenze del cambio climatico saranno ancora più devastanti”.
In effetti, il consumo pro capite di acqua potabile in Italia resta molto elevato: secondo gli ultimi dati Istat riferiti al 2018, si attesta a 215 litri per abitante al giorno, cifra che sale addirittura a 236 nei Comuni capoluogo (rilevazione per il 2020), contro la media europea di 125.
Fosse finita qui. Persino quando vengono fatte, le opere di cura del territorio sono spesso oggetto di critiche feroci. A maggio il Wwf ha parlato addirittura di “scempio ambientale lungo il Velino” a proposito del taglio degli alberi sulle rive del fiume da parte della Regione al fine di prevenire e ridurre il rischio di esondazioni dei corsi d’acqua reatini. Secondo l’associazione ambientalista, l’eliminazione con taglio a raso della vegetazione ripariale, effettuata abbattendo pure piante distanti dall’alveo, ha causato la distruzione di lunghi tratti dell’habitat, comprese essenze tutelate da disposizioni nazionali e comunitarie. Conclusione: “le sistemazioni fluviali e opere idrauliche in corso non possono configurarsi come opere di prevenzione; non è certo la vegetazione ripariale, fisiologicamente presente lungo i corsi d’acqua, a favorire eventuali esondazioni; la vegetazione, al contrario, contribuisce ad una stabilizzazione spondale ed all’equilibrio idrologico che, nella pianura reatina, è minacciato da ben altre cause. Non è un caso che in passato siano state avviate azioni giudiziarie contro il rilascio avventato di acque dagli invasi delle dighe del Salto e del Turano”. Evviva.
26–06-2022