di Massimo Palozzi - Sembra un paradosso, ma quando si parla di sanità niente è sorprendente. Con i medici che minacciano lo sciopero per i tagli alle pensioni e un ancora più grave esodo di massa potenzialmente in grado di destabilizzare un sistema tutt’altro che in sicurezza, nella stessa giornata escono a Rieti due notizie in netto contrasto fra loro (con una terza a fare da contorno).
La prima è buona, anzi ottima. Venerdì la Asl annuncia con soddisfazione che l’ospedale San Camillo de Lellis ha ricevuto una menzione speciale “per l’impegno e l’attenzione profusi nella gestione delle complicanze funzionali post operatorie del tumore della prostata”. Il riconoscimento è stato assegnato dagli esperti di Fondazione Onda, che insieme a Boston Scientific Italia ha indetto un concorso sulle buone prassi adottate negli ospedali italiani.
Sono circa 564.000 i pazienti nel nostro paese con diagnosi di tumore alla prostata, la neoplasia più frequente nella popolazione maschile, che rappresenta quasi il 20 per cento di tutti i tumori diagnosticati negli uomini (40.500 nuovi casi solo nel 2022).
Nel diffuso sentimento di sconforto per il valore della sanità locale, questo premio è una mano santa. In realtà ci sarebbe da questionare sulla fondatezza del generale clima di sfiducia che circonda il mondo della cura della salute nella nostra provincia. Perché non c’è dubbio che gli standard attuali potrebbero essere migliorati e pure di molto, però è sempre un errore buttare via l’acqua sporca con il bambino dentro.
La prossima (si spera) costruzione del nuovo ospedale dovrebbe portare un efficientamento dei servizi in termini logistici, senza tuttavia fermarsi al mero aspetto infrastrutturale. Il nosocomio che sostituirà il de Lellis non sarà infatti solo più moderno, ma dovrebbe finalmente vedere l’avvio di un processo di clinicizzazione in grado di introdurre nel circuito accademico l’unico ospedale del territorio, in attesa della riedificazione di quello di Amatrice distrutto dal terremoto.
La presenza dell’università costituisce del resto una garanzia di qualità e uno stimolo allo sviluppo sia dei processi medico-assistenziali sia di gestione della complessa macchina amministrativa. Lo si vede già nei contributi scientifici forniti dai vari docenti in servizio all’ospedale, che fanno di alcuni reparti delle punte di autentica eccellenza. E lo si auspica in termini di miglioramento dell’assetto esistente con riguardo alla complessiva organizzazione di un sistema non sempre all’altezza delle sfide e che, per quanto non facile da governare, rappresenta un presidio fondamentale di civiltà.
Nel frattempo le risorse destinate alla sanità locale devono trovare adeguata allocazione, tenuto conto dei vincoli di bilancio sempre più stringenti.
Ed eccoci alla seconda notizia, uscita sempre venerdì. Con un comunicato dai toni a volte drammatici, il consigliere comunale del Pd Paolo Bigliocchi, che per inciso di mestiere fa il medico, ha lanciato un allarme che non dovrebbe restare inascoltato: “Mentre la Regione Lazio devolve 10 milioni di euro alla sanità privata del gruppo Angelucci, motivandola con liste di attesa ed accessi ai Pronto soccorso, i medici di famiglia vengono “invitati” ad attenersi a rigide linee guida per prescrivere farmaci normalmente utilizzati anche a scopo preventivo per possibili complicanze”.
“Invitati”, continua Bigliocchi “si fa per dire, perché in realtà verranno sottoposti a periodici report con la possibilità, neanche troppo celata, di essere chiamati a rispondere economicamente delle prescrizioni che la Regione riterrà improprie. Si parla di farmaci di uso comune, dimenticando completamente cosa sia il rapporto tra medico e paziente e soprattutto la responsabilità etica e legale che i medici hanno nei confronti dei loro assistiti. Si applicano, in maniera burocraticamente insopportabile, linee guida che hanno il solo scopo di contenere la spesa farmaceutica e dimenticando quale sia la percentuale residuale sulla spesa sanitaria complessiva della Regione”.
Lo scenario prospettato è inquietante, con “pazienti che verranno chiamati a sostenere una spesa aggiuntiva per le terapie che il sistema pubblico dovrebbe garantire. Avremo quindi medici che dovranno giustificare ai pazienti i motivi per cui non prescriveranno un farmaco e pazienti imbufaliti che se la prenderanno con i medici e dovranno mettere mano al portafogli”. Infine la chiosa: “Occorre ricordare che l’attore protagonista è la Regione, tramite le Asl, che dà soldi ai privati, aumenta le tasse e non garantisce più neanche l’accesso ai farmaci”.
Nel durissimo j’accuse dell’ex sindaco non mancano accenni polemici di natura squisitamente politica. Al di là dell’inevitabile margine di propaganda, il tema sollevato è comunque di grandissima attualità.
In ambito sanitario il concetto di “appropriatezza” viene utilizzato per definire la misura di scelte e interventi diagnostici o terapeutici in relazione alla loro adeguatezza rispetto alle esigenze del paziente e al contesto di riferimento.
Si tratta in realtà di un principio che dovrebbe trascendere lo stretto recinto scientifico per agire in maniera diffusa in tutti i rami dell’amministrazione sanitaria, a partire dalle scelte politiche operate per mantenere sì in sicurezza i conti, senza però mettere in discussione l’assistenza universale gratuita. Che poi gratuita per modo di dire, visto che le prestazioni erogate dal pubblico sono soggette a “ticket” tutt’altro che leggeri e che le lunghe liste d’attesa costringono i pazienti a rivolgersi spesso a strutture private. Con l’ulteriore conseguenza di erodere il senso stesso di universalità dell’assistenza medica.
I dati relativi al primo semestre del 2023 appena forniti da Fondazione The Bridge e Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, raccontano d’altronde in maniera univoca il taglio delle spese per le cure da parte delle famiglie come conseguenza diretta della perdurante crisi economica e della congiuntura particolarmente sfavorevole di questi ultimi tempi. Ma fotografano soprattutto una situazione a rischio con una attività specialistica (cioè visite ed esami) ancora inferiore a quella del 2019, l’anno precedente al Covid.
Il rapporto è stato oggetto di un approfondimento nella rubrica Dataroom di Milena Gabanelli e Simona Ravizza sul Corriere della Sera sempre venerdì e fornisce alcune indicazioni piuttosto preoccupanti circa le modalità con le quali le Regioni tentano di addolcire la pillola, adottando sistemi di calcolo dei tempi di attesa più favorevoli. “È realistico”, si chiedono retoricamente le giornaliste “che nell’Asl di Roma 1 e Rieti nella settimana tra il 22 e il 26 maggio solo 30 pazienti abbiano avuto bisogno di prenotare una Tac entro dieci giorni?”. Ai lettori la risposta.
12-11-2023