a cura di Massimo Palozzi

Maggio 2022

IL DOMENICALE

REFERENDUM GIUSTIZIA, 5 QUESITI DA ESPERTI DI DIRITTO

giustizia

di Massimo Palozzi -  Pochissimi ne parlano e ancor meno sanno esattamente di cosa si tratti, ma il 12 giugno a Rieti si voterà pure per cinque referendum sulla giustizia. Per essere validi, alla consultazione deve partecipare almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto. Un quorum decisamente alto, contro il quale si sono schiantati numerosi quesiti negli ultimi anni. Il fatto che si voti in concomitanza con le amministrative porterà un minimo aiuto in termini di affluenza. In ogni caso ci si potrà rifiutare di ricevere le schede referendarie, pur votando per sindaci e consiglieri (e viceversa). Considerando anche i quasi cinque milioni di elettori italiani all’estero, il rischio che non si raggiunga il minimo dei votanti per la validità è comunque elevato.

Ma di cosa si ragiona in concreto? Spiegarlo in poche parole, soprattutto ai non addetti ai lavori, è parecchio complicato. Ad aumentare le difficoltà di comprensione c’è poi la formulazione letterale dei quesiti: un esercizio del peggior burocratese appesantito da ingarbugliatissimi testi chilometrici.

Una illustrazione in termini apprezzabili da una platea meno ristretta di raffinati giuristi ha provato a fornirla giovedì il convegno organizzato dalla Camera Penale di Rieti presieduta dall’avvocato Morena Fabi, con l’intervento del presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Gian Domenico Caiazza per il fronte del “sì”, e di Mario Palazzi, sostituto procuratore presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e per lunghi anni in servizio proprio in città, per quello del “no”. A moderare l’incontro il giornalista del Dubbio Giovanni Maria Jacobazzi.

Nella sala dei Cordari gremita di avvocati, magistrati e qualche cittadino interessato al tema, è emersa in pieno la contrapposizione frontale tra avvocatura e magistratura su tutte o quasi le materie oggetto dei referendum. Solo su uno si è trovato un pacifico accordo, quello relativo all’abolizione delle 25 firme da raccogliere per presentare la propria candidatura al Csm. Come ha acutamente osservato Palazzi, se un magistrato non riesce a rimediare tra i colleghi nemmeno 25 firme per candidarsi, farebbe meglio a ripensare alle proprie velleità. Sul punto, nulla quaestio da parte dell’avvocato Caiazza, per un cavillo di sicuro non in grado di accendere grandi passioni tra gli elettori.

A riscaldare il dibattito sono invece stati i tre quesiti sulle misure cautelari, sull’abolizione della cosiddetta “legge Severino” e sulla separazione delle funzioni dei magistrati.

Cominciamo con il primo. Attualmente, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, per la detenzione cautelare, ordinata cioè prima della condanna passata in giudicato, deve ricorrere almeno una delle seguenti condizioni: pericolo di fuga, possibile inquinamento delle prove e rischio di reiterazione del reato. Il referendum punta a eliminare la terza. Secondo i proponenti, la prognosi che l’indagato o l’imputato commetta nuovamente il reato presenta un’alea eccessiva e troppe volte serve al pubblico ministero che la richiede e al giudice che la dispone come facile scappatoia per privare della libertà un soggetto non ancora condannato in via definitiva. Espungendo dal codice questa previsione, ha spiegato il presidente Caiazza, si eviterebbero tanti abusi ai danni di cittadini assolti al termine dell’iter giudiziario.

Di diverso avviso la magistratura. Il procuratore Palazzi ha difeso con forza la necessità di conservare il riferimento alla reiterazione del reato come strumento di contrasto alla criminalità. Anche perché le misure cautelari che in caso di vittoria dei “sì” sarebbe impossibile applicare, riguarderebbero non soltanto la detenzione in carcere o agli arresti domiciliari, ma tutte le altre, tra cui il divieto di avvicinamento alla vittima, l’allontanamento da casa del coniuge violento e via dicendo.

Il difetto del referendum abrogativo che, in quanto tale, si limita a cassare norme o parti di norme, risulta evidente. Non potendo cesellare le diverse fattispecie, la scelta è netta: abolire l’intera disposizione o lasciare tutto invariato.

Arriviamo quindi all’altro oggetto della disputa. La “legge Severino” è in realtà il decreto legislativo n. 235 del 31 dicembre 2012 e prende il nome dall’allora ministro della Giustizia del governo Monti. In base alle norme in esso contenute, i condannati ad almeno due anni per alcuni delitti non colposi non possono essere candidati a cariche elettive e, se già in carica, decadono. Gli amministratori locali vengono sospesi già dopo la condanna in primo grado. Per i fautori del “sì”, così si vanifica il principio della presunzione di innocenza e non a caso il referendum è fortemente sostenuto dall’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, in maniera trasversale rispetto ai partiti di appartenenza dei suoi rappresentanti.

Nell’ottica di Caiazza la cancellazione del decreto serve a recuperare un certo equilibrio tra i poteri dello Stato, laddove quello giudiziario sembra aver posto sotto tutela, o quantomeno ridotto in condizione di minorità, quello politico. In troppi casi, del resto, persone sospese sono state assolte, avendo però dovuto abbandonare l’incarico ricoperto o affrontato comunque una pubblica gogna.

Ha replicato Palazzi facendone invece una questione culturale di lotta alla corruzione in senso lato: se un parlamentare, un consigliere, un sindaco viene condannato a una pena importante per reati gravi, è opportuno che vada rimosso dall’incarico. Allo stesso modo è opportuno che a un cittadino gravato da simili precedenti venga precluso l’accesso all’elettorato passivo. Questione obiettivamente complessa, sulla quale ognuno potrà trarre le proprie conclusioni.

Il terzo dei quesiti più controversi riguarda la separazione delle funzioni dei magistrati. Al proposito occorre fare una precisazione: il referendum non propone la separazione delle carriere. La carriera rimane unica, come disposto dalla Costituzione. I promotori vorrebbero piuttosto cancellare quella parte della riforma Castelli che consente di cambiare incarichi tra requirenti e giudicanti per un massimo di quattro volte nel corso del tempo. Se si affermassero i “sì”, i magistrati di prima nomina verrebbero pertanto assegnati a una funzione da svolgere per l’intera vita professionale.

Per Caiazza il passaggio tra differenti funzioni non giova al buon esito complessivo dell’amministrazione della giustizia, mantenendo un’impropria permeabilità che finisce per impedire la fissazione delle dovute distanze tra un’attività e l’altra. Giudizio opposto da parte di Palazzi, deciso nel difendere la possibilità, ancorché limitata, di transito tra le funzioni, a garanzia di una diffusa cultura della giurisdizione tra i magistrati italiani e per concedere ai singoli togati di trovare una collocazione più confacente alle proprie inclinazioni personali, con conseguente aumento della produttività e della qualità del lavoro di ciascuno.

L’ultimo dei quesiti riguarda infine il ruolo dei laici nei Consigli giudiziari. In ogni distretto di Corte d’Appello (Roma, per quanto riguarda i magistrati in servizio a Rieti) opera un organismo composto da magistrati eletti dai colleghi e, in numero minoritario, da avvocati e professori universitari. A loro spetta il compito di valutare ogni quattro anni le prestazioni di giudici e pubblici ministeri, ma solo i togati hanno diritto di voto. Di fatto, la presenza degli avvocati e dei docenti non incide direttamente sulla valutazione, circostanza che ha suscitato le doglianze di Caiazza e dell’intero mondo dell’avvocatura. A parere del presidente dell’Unione delle Camere Penali sarebbe giusto che la magistratura si aprisse ad esami esterni, come peraltro avviene a campi invertiti. Nei procedimenti disciplinari a carico degli avvocati, partecipa in effetti il procuratore generale della Corte d’Appello. Per par condicio andrebbe allora ripristinata una sorta di reciprocità, garantita nello specifico dalla prevalenza dei “sì”. Una simile ipotesi non è invece contemplata nella visione di Palazzi secondo cui, dovendo riferire al Csm (l’organo di autogoverno dei giudici), non va intaccato il principio per il quale l’aspetto decisionale resti appannaggio dei togati, membri della medesima categoria di appartenenza del valutando e dei decisori finali.

Si tratta di una questione estremamente tecnica sulla quale non sarà facile per il comune cittadino maturare un giudizio preciso e che rischia di svilire l’efficacia dello strumento referendario. Come ha sottolineato in chiusura il segretario dell’associazione Sabina Radicale Marco Giordani, i referendum sono un imprescindibile mezzo di partecipazione democratica. Il problema è che solo sulle grandi tematiche si riesce a mobilitare l’opinione pubblica. Assai più difficile diventa farlo su tecnicalità esasperate, che dovrebbero al contrario essere materia dei lavori del parlamento.

 

29–05-2022

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