di Massimo Palozzi - Che c’entra la mostra di quadri inaugurata lunedì nel chiostro di Sant’Agostino con la polemica riaccesa venerdì dal consigliere di opposizione Gabriele Bizzoca sull’assunzione in Comune di quattro addetti alla comunicazione? All’apparenza niente, in realtà molto. La rassegna in corso fino al 26 giugno nell’ambito delle iniziative per il Giugno Antoniano si intitola “Monocromie” e già il nome suggerisce di cosa si tratti: una particolare tecnica pittorica che prevede l’utilizzo di un solo colore. Il risultato è spettacolare. In molti casi l’osservatore nemmeno percepisce di primo acchito di trovarsi di fronte a un’opera realizzata senza l’uso di colori diversi, tanta è l’abilità degli artisti riversata sulle tele.
Come commentano i curatori Alessandro Melchiorri e padre Marcello Bonforte, dipingere facendo leva sulle sfumature di un unico colore non è un semplice esercizio di stile, ma una vera e propria sfida. Che peraltro non si declina soltanto nella dimensione astratta, come verrebbe facile pensare. Con la tecnica della monocromia vengono infatti ritratti oggetti, paesaggi e volti resi in piena fedeltà all’originale grazie a virtuosismi che solo una mano esperta e ispirata è in grado di padroneggiare con effetti di grande impatto visivo.
Per il terzo anno consecutivo nella Sala delle Colonne del chiostro della basilica di Sant’Agostino sono esposti dipinti di un nutrito gruppo di autori, reatini e non. “La monocromia è un genere indagato soprattutto a partire dai primi anni del Novecento”, spiega padre Marcello, frate minore e appassionato pittore di talento. Gli esempi di artisti che vi si sono cimentati sono molti, per questo i linguaggi pittorici in mostra oggi sono i più vari, dal figurativo all’astratto, ma tutti avvinti dalla capacità del colore di creare spazio, suggerire movimento e raccontare la profondità del mondo.
Traslando il concetto dall’espressione artistica a una sintesi forse brutale ma nemmeno troppo forzata, l’aspirazione a voler rendere con un unico colore le mille sfaccettature della realtà ricorda il desiderio ricorrente di ogni detentore di potere, grande o piccolo che sia: raccontare (o far raccontare da addetti all’uopo nominati) le proprie imprese sotto la luce uniforme e sempre uguale dell’esaltazione e del compiacimento. E qui però nasce il problema. Perché l’espressione artistica è per definizione il frutto del genio umano libero da condizionamenti (ancorché su commissione), mentre il pianto delle prefiche è per altrettanto consolidata tradizione all’esclusivo soldo del committente.
Il pittore, lo scrittore, il musicista è insomma libero di dipingere, raccontare e comporre come meglio crede, anche ricorrendo a un’unica tonalità dello spettro cromatico, narrativo o sonoro. Del pari, l’informazione di parte ha in un certo qual modo il diritto di farsi partigiana fino alla propaganda. La questione, tanto antica quanto irrisolta, è come quel messaggio giunge ai fruitori. In particolare, quanto la manipolazione faziosa dei fatti finisca per apparire resoconto obiettivo.
La democrazia e il pluralismo informativo garantiscono diritto di parola (e di autocelebrazione) a tutti. Al contempo dovrebbero fornire gli anticorpi per distinguere la verità dalla suggestione più o meno subliminale. Nella realtà sappiamo che non è così. Proprio il proliferare delle fonti informative ha portato al paradossale risultato di far diventare difficilissima l’interpretazione delle notizie, al punto che la loro iperproduzione e l’incontrollata velocità di diffusione rendono pressoché impossibile sceverare il grano dal loglio.
In questo confuso e inebriante contesto si colloca la vicenda dei quattro collaboratori assunti dal sindaco di Rieti per rafforzare il proprio staff di comunicazione istituzionale (cioè per curare sito e canali social), al costo di cinquecentomila euro. Quando mesi addietro la vicenda è venuta fuori, in molti hanno commentato criticamente la decisione del Comune di investire tante risorse in un settore non proprio cruciale e peraltro già opportunamente presidiato. L’entità della cifra e il fatto che a guadagnarsi l’ambito ruolo siano stati collaboratori di Sinibaldi durante la campagna elettorale ha acuito i dubbi e un po’ anche lo sconforto di chi vive in una città che solo con l’arrivo dei fondi del Pnrr sta conoscendo un minimo di cura, con un Comune per di più in predissesto che per recuperare le poco oculate gestioni risalenti, manco a farlo apposta, a una monocromia politica quasi assoluta negli ultimi 29 anni di governo locale, impone tributi con le aliquote al massimo livello.
Sostiene Bizzoca che la nomina dei quattro collaboratori sia illegittima. Di parere contrario la giunta, che invece difende la scelta appellandosi a disposizioni normative di diversa interpretazione. Saranno eventualmente gli organi giurisdizionali a sancire la correttezza o meno dell’operazione. Qui rileva se quelle nomine siano state opportune, soprattutto per la funzione svolta al rimarchevole prezzo di mezzo milione di euro.
Fin quando a pagare è un privato cittadino che mira ad esaltare vita, opere e miracoli di sé stesso, nulla quaestio, almeno entro certi limiti. Quando invece il lavoro è pagato con (tanto) denaro pubblico sottratto ad altri scopi e questo lavoro spesso sovrappone l’informazione istituzionale alla celebrazione del dante causa attraverso una monocorde narrazione degli eventi (ed eccolo il parallelo con gli artisti della monocromia), la faccenda assume una piega diversa. Per molti decisamente poco gradita, per altri magari no.
18-06-2023
ph M. D'Alessandro