a cura di Ileana TOZZI

Settembre 2017

STRADA FACENDO

SIAMO GENTE DI CONFINE

rieti

Per quanto ci sforziamo di rivendicare la nostra privilegiata condizione di centralità, pur avallata dall’autorevole giudizio dell’eruditissimus Marco Terenzio Varrone, non faremmo poi male a riconoscerci come gente di confine, indelebilmente segnata da una condizione marginale che ci rende indifesi rispetto al potere – centrale, quello sì, per davvero – e sospettosi verso ciò che non ci appartiene, quando sarebbe tanto più utile e vantaggioso assumere in entrambi i casi l’atteggiamento opposto, di sana diffidenza nel primo, di accogliente curiosità nel secondo…

Mi si perdoni questa digressione, sospesa tra ragioni storiche e vis polemica, alimentata nella calura estiva dall’occasione mancata di una autentica querelle sulla gestione delle acque, ricchezza autentica e negletta del nostro territorio, che assumono valenza pubblica quando le cediamo, valore esoso di bene privato quando dobbiamo pagarne la bolletta.

Ma, senza un’opportuna attualizzazione, sarebbe senz’altro più difficile comprendere il come ed il perché il decumano maggiore della città sabino-romana, dall’età medievale e fino alla metà dell’Ottocento fosse indicato nei documenti d’archivio come via degli Abruzzi o via di Regno e ancora, come se non bastasse, perché la porta orientale della città che oggi conosciamo slabbrata dagli archi novecenteschi ritagliati nella cortina compatta delle mura si chiamasse porta d’Arci, ad indicare il presidio munito di primaria importanza per la pubblica sicurezza.

Soltanto a poche miglia di distanza, al fosso Ranaro per la precisione, erano fissati i confini con il Regno Napoletano, più tardi enfaticamente intitolato delle Due Sicilie, e benché i territori soggetti all’autorità vescovile si spingessero fino alle terre del Cicolano l’amministrazione in temporalibus del Patrimonio di San Pietro cessava i suoi effetti al di là di Castelfranco, il cui toponimo rivela a tutt’oggi in filigrana la sua originaria natura di terra di frontiera esente dai dazi e dalle dogane.

Via degli Abruzzi, dunque, o via di Regno fu il nome con cui fu indicato almeno tra lo scorcio del XII e la metà del XIX il tratto urbano della via della lana che attraversava gli Appennini collegando le aree di produzione con i centri manifatturieri ed i principali mercati dei tessili, anch’esso costellato di opifici e gualchiere che utilizzavano le acque del Velino e dei «ruscelli che fuggono dal fiume Cantaro», secondo la felice espressione del canonico Pompeo Angelotti, testimone particolarmente attendibile dal momento che il palazzo di famiglia era parte integrante di quella fitta maglia architettonica che si snodava e tuttora si snoda « nel diritto sentiero, che dalla porta alla Piazza & al Palazzo del Magistrato conduce: in esso si veggono antiche, e moderne fabbriche, da principali Gentilhuomini habitate»  per frazionarsi nei più modesti fabbricati che fungevano da « habitatione à commodi Agricoltori, che per lo più attendono all’arte de’ Guadi».

L’unità d’Italia trasformò per sempre la toponomastica e l’economia di questo popoloso rione in cui felicemente nobili e plebei, poveri e ricchi avevano condiviso i  loro destini.

La moderna intitolazione fu dettata dalla volontà di far memoria della permanenza a palazzo Colelli da parte di Garibaldi, insieme con la moglie Anita, durante la stagione breve ed esaltante della Repubblica Romana.

E, come sempre accade, sottrasse alla memoria ciò che le pietre rivelano ancora a chi sa interrogarle perché raccontino le storie del passato.

 

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