di Massimo Palozzi - Ancora una volta i reatini hanno dato prova di grande maturità. Venerdì, primo giorno del Green pass obbligatorio per accedere ai luoghi di lavoro, è trascorso senza clamori e senza disagi per nessuno. In pratica tutti gli interessati hanno mostrato all’entrata di fabbriche e uffici la certificazione dell’avvenuta vaccinazione o il tampone negativo effettuato nelle 48/72 ore precedenti, con buona pace di quanti temevano chissà quali contraccolpi.
Nella stessa giornata è partito il servizio itinerante predisposto dalla Asl nella zona industriale, che ha riscosso la convinta adesione delle associazioni di categoria: un ulteriore sforzo per incrementare la copertura immunitaria andando fisicamente incontro alle esigenze del mondo produttivo.
Non era un risultato scontato, anche se largamente atteso. Il Lazio ha superato il 90 per cento di persone immunizzate e Rieti è tra le province italiane a registrare i tassi più alti di vaccinati. Evidentemente, il buon senso, l’affidamento alla scienza e il desiderio di approfittare degli strumenti a disposizione per superare il lungo periodo di stress imposto dall’emergenza sanitaria hanno trovato terreno fertile. Pure questa una cosa non scontata e che invece si pone come riprova del fatto che la mentalità reatina abbia ormai abbandonato le caratteristiche di una volta diventate proverbiali: chiusa, incapace di cogliere le suggestioni e le opportunità del nuovo, grettamente autoreferenziale.
Tutto cambia, insomma. Persino a Rieti, dove la vulgata tradizionale ha sempre descritto i suoi abitanti piuttosto restii ad aprirsi alle innovazioni e ai contatti esterni, e così poco inclini a raccogliere le sfide della modernità (in qualunque epoca si fosse palesata). Una condizione ben rappresentata dalla possente cinta muraria a proteggere e preservare dalle sfide provenienti da fuori.
Nell’ancora irrisolta vicenda del Covid abbiamo forse scoperto un profilo inedito di noi stessi. Inedito, si badi, non nuovo. Nel senso di non divulgato, ma chiaramente già presente come patrimonio collettivo condiviso.
Di eccellenze locali andate lontano a trovare fortuna e portare alto il nome di Rieti è piena la storia. Per restare alle ultime settimane, viene in mente la meravigliosa favola di Susanna Salvi, nominata un mese fa étoile del Teatro dell’Opera di Roma, pur mantenendo stretti legami con la sua città natale.
Questo è sempre stato in fondo il limite della “provincia”, dove la qualità della vita è alta grazie alla natura incontaminata, all’aria buona, al cibo genuino, ai ritmi meno forsennati delle metropoli. E tuttavia, la carenza di infrastrutture, di supporti adeguati alla ricerca, di stimoli lanciati al mondo da classi politiche in ritardo rispetto alle scadenze del presente hanno spesso impedito il pieno dispiegamento di potenzialità in grado di trovare solo di rado il substrato necessario a manifestarsi in loco.
La settimana che sta andando in archivio ci ha però consegnato dei segnali incoraggianti da leggere in controtendenza.
Lunedì si è diffusa la notizia di uno studio (l’ennesimo) pubblicato su una prestigiosa rivista internazionale, messo a punto nel quadro di un accordo tra Sabina Universitas e Alcli sugli effetti dell’esposizione ad inquinanti del traffico in età pediatrica. La ricerca è stata condotta dal Dipartimento di Sanità pubblica e Malattie infettive dell’Università La Sapienza di Roma in collaborazione con l’Advance Technologies Rieti Centre del polo universitario nostrano, come parte di un progetto condotto dal Cecarep (acronimo inglese che sta per Centro oncologico di ricerca e prevenzione) della provincia di Rieti istituito nel 2016.
Tre giorni dopo la Reset ha ricevuto al Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il premio all’innovazione dell’Eni nell’ambito dei cosiddetti “Nobel per l’energia”. L’azienda reatina, fondata nel 2015, è diventata ormai una punta di diamante nella produzione combinata di energia elettrica e termica dalla gassificazione delle biomasse, contando già 70 dipendenti nonostante gli effetti frenanti della pandemia.
Infine, proprio di recente hanno preso il via tre piccole attività a Borbona, Rieti e Poggio Catino, frutto del Vivaio d’impresa della Fondazione Varrone.
Anche qui non si tratta di “prime volte” in assoluto. Ci sono precedenti illustri da citare e dunque non è da questo che si può concludere per un cambio di visuale rispetto al passato. Sono in ogni caso tasselli da considerare in maniera unitaria nella ricomposizione di una narrativa ampia e di non facile scrittura. Accanto agli esempi menzionati, è del resto viva la memoria dell’11 settembre, quando Rieti ha ospitato per la prima volta nella sua storia un’edizione del Gay Pride. Nella penombra maleodorante della “vicoleria” virtuale (per dirla con una parola cara al maestro Ajmone Milli) sono scorsi fiumi di liquami, a dire il vero risciacquati in fretta e abbondantemente da una postura collettiva accogliente, inclusiva e rispettosa delle ragioni degli altri. Atteggiamento non scontato (e ci risiamo) eppure largamente dispiegato e di particolare importanza trattandosi di temi connessi con il riconoscimento di basilari diritti civili.
Si dice in genere che la società corra molto più veloce delle istituzioni. Non sempre è così. Anzi, nella maggior parte dei casi il governo, gli amministratori, i gestori della cosa pubblica rappresentano fedelmente vizi e virtù del corpo elettorale che li esprime. Dunque, l’esercizio di attribuire alla politica in quanto tale tutte le colpe risulta da un lato troppo semplicistico, dall’altro per niente utile perché di solito la rappresentanza politica è lo specchio fedele della collettività che in essa si riconosce.
Per questo motivo la disaffezione verso l’attivismo civico non può essere giustificata con il semplice disincanto, con la mera presa d’atto che “tanto sono tutti uguali”. Quel “sono” potrebbe infatti diventare “siamo”. Ma a prescindere da un simile dettaglio (peraltro niente affatto trascurabile), se libertà è partecipazione (consapevole, andrebbe aggiunto all’arcinoto testo gaberiano) la prima forma di democrazia è il voto, un lusso dato troppe volte per scontato sebbene costato moltissimo alle generazioni precedenti.
I livelli di astensionismo registrati alle ultime elezioni amministrative che si concludono oggi e domani con i ballottaggi dovrebbero far riflettere non soltanto i partiti. Se un sindaco viene eletto con la maggioranza dei voti di appena la metà degli aventi diritto, si pone un problema serio di valore della rappresentatività.
Qualcuno potrebbe osservare che nelle democrazie mature l’elevato tasso di astensionismo nasconde una sorta di pace sociale in virtù della quale il cittadino medio comunque si fida di ciascuno dei contendenti e poco importa chi prevalga. È una tesi che può avere un suo fondamento, ma non basta ad allontanare il senso di distacco tra popolo e classi dirigenti. La vicenda del Green pass ha per fortuna mostrato un’incoraggiante continuità tra norme a volte opprimenti e capacità di comprenderne la necessità, seppure a malincuore. Fino a venerdì la sovresposizione mediatica di no-vax, negazionisti e galassie consimili, conquistata anche a furia di violenze come quelle di sabato 9 a Roma culminate con l’invasione e la devastazione della sede della Cgil, aveva fatto temere una deriva alimentata dal logoramento di tanti mesi di chiusure forzate e rinunce varie. Al dunque si è invece capito quanto sia vera la massima di Lao Tzu per cui fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. O più semplicemente quanto potere abbia la “maggioranza silenziosa” che alle zuffe reali o internettiane preferisce la concretezza dell’impegno quotidiano.
Per tornare all’emergenza Covid, finora il temuto effetto scuola non c’è stato. A parte rari casi, le aule non si sono trasformate in incubatori virali. Allo stesso modo, le cautele per la piena ripresa lavorativa dovrebbero garantire uguale successo, sempre senza abbassare la guardia. In Inghilterra, dove a luglio hanno eliminato le restrizioni, è di nuovo impennata di contagi e, purtroppo, di decessi.
17-10-2021