a cura di Ileana TOZZI

Febbraio 2021

STRADA FACENDO

COLPIRE AL CENTRO

città, storia

di Ileana Tozzi - E’ una storia che si ripete, anch’essa ciclica come una pandemia, quando un focolaio virale che si riteneva ormai spento si ravviva. E fa danno. Capita così con le polemiche mai sopite, rinfocolate magari da un fatto - o un fattarello - dagli intenti propositivi e positivi, che mettono a nudo vecchi retaggi mai dimenticati.

E’ capitato con la querelle del Terminillo “montagna di Roma”, succede ancora ad ogni pié sospinto riguardo all’ubicazione del centro d’Italia, a cui siamo in parecchi da queste parti ad essere pervicacemente affezionati.

Premesso che il concetto stesso di centro non può prescindere dal tracciato dei confini, rendendo labile e inevitabilmente temporanea ogni definizione, la questione infiamma i cuori di parecchi abitanti dell’Italia mediana, almeno da Narni ad Antrodoco, passando per Cittaducale e per la nostra città, indubbiamente tra le favorite in questo contenzioso degno di essere annoverato tra gli episodi salienti di una inesauribile Secchia rapita.

Gli eruditi romani, dall’oriundo Dionigi di Alicarnasso a Plinio il vecchio, favoleggiarono intorno all’isola galleggiante sullo specchio limpido del lago di Paterno, che già per la sua forma perfettamente circolare evocava l’ονφαλο∫ l’ombelico del mondo.

Il pansabinismo di Marco Terenzio Varrone, appassionato cultore della reatinità, fece privilegiare la nostra città come centro della penisola, così come la civiltà degli antenati tra il mito e la storia aveva dato vita alla Roma delle origini.

All’autorità indiscussa dell’eruditissimus Romanorum, il più erudito dei Romani che nella sua lunga vita dedicata per la prima metà alla milizia e solo per la seconda alla ricerca scientifica ed alla compilazione di libri, oltre 600 volumi secondo la tradizione riportata da San Girolamo, si oppose nel primo Seicento monsignor Pietro Paolo Quintavalle vescovo di Cittaducale, ipotizzando che il centro d’Italia si trovasse nel luogo in cui sorgeva da tempo immemorabile la chiesa di Santa Maria di Sesto a fianco della consolare Salaria sei miglia, appunto, da Rieti.

Costruita sulle vestigia di un tempio pagano, Santa Maria di Sesto fu per secoli chiesa cemeteriale frequentata la domenica dai contadini della fertile piana che là ricevevano la loro educazione di buoni cristiani timorati di Dio senza disdegnare di apprendere a leggere, scrivere e far di conto.

Monsignor Quintavalle, emerito giurista appassionato della storia sacra e profana, dedito a valorizzare ed incrementare il patrimonio architettonico ed artistico della Diocesi civitese, provvide nel 1620 al consolidamento ed al restauro della chiesa di Santa Maria di Sesto facendovi collocare un’epigrafe lapidea che la definiva come BASILICA SANCTÆ MARIÆ  DE SEXTO IN UMILICUS ITALIÆ, memore della tradizione antiquaria che affondava le radici nella storia della latinità.

Se anche noi assumessimo una sana consapevolezza del passato e del suo retaggio di memorie e tradizioni accetteremmo forse di buon grado il relativismo di certe definizioni, ricordando che tanto a lungo, forse troppo a lungo siamo stati gente di confine.

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