Buio in Sala: Il Gladiatore II e Giurato Numero 2

18/11/2024 | Notizie in evidenza, Piccolo grande schermo

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Rubrica a cura di Andrea Carotti – 

IL GLADIATORE II di Ridley Scott

“Qualsiasi cosa ti capiti, è stata prestabilita per te fin dall’eternità, e un fitto intreccio di cause da sempre ha legato la tua esistenza a quell’evento” [Marco Aurelio]

Sono trascorsi venticinque anni dall’uscita de Il Gladiatore e il suo retaggio resta scolpito nell’immaginario come un busto all’interno dei musei capitolini. Anche in questo seguito il vero protagonista è il Colosseo, teatro dell’intrattenimento più sregolato, eccessivo, sbalorditivo e spettacolare. Un contenitore perfetto per riflettere sulla società dello spettacolo, sui cambiamenti del dispositivo cinema e sulla natura delle immagini contemporanee dove mettere un ulteriore punto esclamativo nella carriera prolifica di Sir Ridley Scott. Ci sono immagini che lasciano eredità pesanti e quelle di Massimo Decimo Meridio hanno un peso specifico considerevole e difficile da replicare. Nonostante la sua figura diegeticamente sia vittima della damnatio memoriae (il nome Maximus cancellato) le sue spoglie sono custodite nel cuore dell’arena e appese sopra la lapide spada e armatura sono in attesa di un nuovo eroe pronto a raccoglierle. Il Gladiatore II batte la stessa strada del predecessore raccontando la storia di Lucio Vero, figlio di Lucilla e nipote di Marc’Aurelio, cresciuto libero in Numidia, ridotto schiavo e condotto a Roma, dove dominano gli imperatori Caracalla e Geta, in cerca di vendetta sul Generale Acacio (Pedro Pascal) e (ri)scoprire sé stesso.

Il regista replicante si interroga sul genere epico e lo decostruisce in corso d’opera: i personaggi che ambiscono ad un cambiamento di status quo devono abbandonarsi alla rabbia e al rancore, le parole sembrano non bastare per generare nuovi sensi e Il gladiatore II-fotoconsensi, a meno che non si parli per citazioni e aforismi, i nuovi comandamenti contemporanei. Roma viene dipinta come un impero in decadenza smarrito in balìa della follia del potere, senza apparente memoria storica dove i cittadini vengono anestetizzati e appagati da immagini spettacolari ed esibizioni circensi senza comprenderne davvero significanti e ripercussioni. Il corpo viene prima dell’anima, l’estetica prima dell’etica, la forma prima della sostanza come se Scott volesse dirci qualcosa sulle ambiguità della situazione politica americana. Non sarebbe il primo quest’anno, anche Francis Ford Coppola con Megalopolis rifletteva sull’immagine-tempo utilizzando riferimenti all’Antica Roma e la spettacolarità del Colosseo come specchio dell’America.

In sostanza il film trasuda smarrimento, tormento e perdita, antichi valori di un immaginario anche cinematografico che non ha più sapore epico, che fa fatica a proiettare il suo sguardo aldilà del giardino di casa preoccupandosi dell’immanenza senza trascendere mai. La terra in cui giace sepolto Massimo, la stessa che stringe tra i pugni Lucio è intrisa di sangue dolore, rimpianto ma crea una connessione, una fede necessaria che faccia da guida nei tempi più bui: “Parlami Padre”.

 

GIURATO NUMERO 2 di Clint Eastwood

“La democrazia è un sistema imperfetto, ma è il meglio che abbiamo inventato” Winston Churchill

Sono le scelte personali a fare la differenza, la giustizia non è un ideale da contemplare ma una pratica da mettere in atto quotidianamente. L’ossessione di Clint di sovrimporre il buono e il cattivo e farne coincidere moventi, intenzioni, piaceri e orrori questa volta viene radicalizzata in maniera sconcertante perfino per i suoi fan.  Quale è la cosa giusta da fare, cosa è meglio fare per sé stessi e cosa non lo è per gli altri. Sono tanti gli interrogativi posti in essere nel 41° lungometraggio del maestro Clint Eastwood ma la questione dominante è il senso di colpa.

Ancora una volta la strada che porta a raddrizzare i torti è tortuosa e piena di ostacoli, che possono essere superati con il fiuto e l’intuito. Una forza irrazionale, che muove le azioni del singolo, può pesare di più delle leggi e delle prove processuali. Il ragionevole dubbio viene innescato da un evocativo frame che vede Nicholas Hoult, l’attore protagonista, in posa alla finestra come l’indimenticabile Henry Fonda in La parola ai giurati. Lo scontro si rivela fordianamente tra dimensione privata e pubblica, individuo e civiltà, cittadino e persona puntualmente catturato dalla m.d.p. con frenetici ed incalzanti campi e controcampi sviluppando l’opera, anche visivamente, su due piani dimensionali. Immersiva l’apertura dell’opera con la dea bendata che in dissolvenza vira sulla moglie del protagonista anche lei bendata con un fazzoletto e folgorante il finale in cui il personaggio interpretato da Toni Collette decide di aprire gli occhi e di “fare giustizia” regalando uno degli epiloghi più belli della storia del cinema.

Con eleganza e misura Eastwood torna a fare i conti con le proprie ossessioni sul dovere morale, leggi e le sue procedure ponendo il focus sui pregiudizi, superficialità e sulle procedure legali. Un’opera che interroga il presente, dialoga con lo spettatore insinuando dubbi e amare constatazioni, chiama in causa l’etica che governa i nostri giorni e mette sotto processo perché probabilmente il legal-thriller o courtroom movie era l’unica scelta possibile per un discorso portato avanti da decenni. Insistere sul finale è la cosa giusta da fare, inquadrature di disarmante semplicità che contengono un oceano di riflessioni, sguardi, emozioni. Un cinema che confida, di cui ci si fida. Clint Eastwood ha ancora fiducia nelle persone.

Format Rieti Marzo-Aprile 2025

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