di Andrea Carotti – L’uomo è ciò che prende dalla natura, ciò che mangia e porta dentro di sé e nell’opera-mondo di Denis Villeneuve la centralità della componente naturalistica pervade gli spazi e gli animi dei protagonisti creati dalla mente geniale di Frank Herbert. In questo secondo capitolo le tematiche poste sotto la lente d’ingrandimento sono fede, fanatismo, concetto di comunità, potere e sguardo. Partendo proprio da quest’ultimo, è ricorrente, nel cinema contemporaneo, un’ossessione che molti cineasti proiettano sul grande schermo: la crisi dello sguardo. L’immagine necessita di un’indagine approfondita, di generare senso autonomamente senza declinarsi o appropriarsi di altri linguaggi se non del cinema stesso. L’immagine è in stato di sopravvivenza quindi, e per tornare a sublimarsi è urgentemente rientrata al centro del dibattito artistico e critico. In Dune è la capacità di vedere, di saper guardare, di intercettare le visioni a fare da fulcro e parallelamente interpretarle, come tenta di fare il giovane Paul Atreides (Timothée Chalamet) durante il suo percorso biblico che lo porterà, da prescelto, a guidare i popoli verso una nuova speranza. Ma c’è realmente qualcosa in cui sperare? Il concetto di speranza è un’utopia?
Nel pianeta Arrakis la corsa per il dominio sulla spezia, sostanza che muta ad ogni assaggio, rimanda non solo ad immaginari prettamente western ma evoca anche echi scorsesiani sul fascino diabolico del potere, nonostante in Killers of the Flower Moon è il petrolio a compromettere le qualità umane, da cui è complicato estromettersi ed ecco quindi che i personaggi inesorabilmente si trovano costretti in un vortice di tensioni, emozioni, contraddizioni, speculazioni e allucinazioni. E ci si perde in questo mondo pieno di sottotesti politici, messianici ed esoterici, fede e scetticismo vengono messi aspramente a confronto scatenando una dialettica idiosincratica che cattura gli occhi e la mente di chi sta a guardare anche grazie al montaggio sincopato in cui lo spettacolo domina la scena.
Lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante, è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. La tecnica spettacolare utilizzata nel film e i significanti che ne derivano prendono la posizione critica precisa di un sistema in cui il mostrabile conta più del dicibile ma nonostante ciò, quello che viene mostrato deve spettacolarizzare, scandalizzare (una delle prerogative messianiche) per risultare coinvolgente ed attraente: Arrakis come terra promessa o grande arena/parco divertimenti? In ogni caso guerra è sempre e così la vita di questo mondo diviene opaca e irrespirabile. La scissione si compie all’interno dello spettatore. Quali decisioni prendere? Il cinema di Villeneuve disegna sguardi sul futuro che interrogano il nostro presente in particolare riflettendo sulla figura divina e sul dibattito tra concreto e astratto.
La figura divina problematica e frutto di schermaglie dialettiche rievoca il pensiero idealista di Hegel sulla religione e sul successivo capovolgimento di prospettiva di Feuerbach. Le immagini che guardiamo in Dune orchestrano un’ipnotizzante estetica che a tratti può risultare alienante (tutta la sequenza dell’arena in cui siamo sul pianeta Harkonnen, Giedi Prime) tanto da estromettere dal nostro medesimo delle qualità artistiche che percepiamo essere aldilà della nostra comprensione. Ma in linea alla scuola feuerbachiana queste qualità andrebbero riportate dentro di noi (dovere morale) per non restare, come dire, spogli di qualcosa. E allora ecco la genialità di Villeneuve che attraverso l’uso magistrale della forma, della tecnica, dell’uso glaciale e asettico delle forme geometriche ci restituisce la sostanza, il calore dei corpi, la dolcezza degli sguardi, l’amore per la conoscenza e il senso di appartenenza.